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Il lago nei secoli: viaggiatori, artisti e pellegrini lungo le sue rive

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Tre Pievi

Pubblicato in Lago di Como, Storia Su Ottobre 14, 2025

Il Lago di Como è sempre stato più di uno specchio d’acqua. È una via di passaggio, una frontiera, un orizzonte aperto che nei secoli ha attirato viaggiatori, artisti e pellegrini da ogni parte d’Europa. Le sue sponde, strette tra montagne e cielo, raccontano una storia antica fatta di incontri, scambi e meraviglia.

Fin dall’epoca romana, il lago — che allora si chiamava Larius — era una via di comunicazione essenziale tra la pianura e le Alpi. Le imbarcazioni trasportavano merci, vino, legname, ferro e sale, ma anche idee e culture diverse. Le ville patrizie di Como e Dongo erano luoghi di villeggiatura per i cittadini più abbienti, mentre le rive settentrionali, tra Gravedona e Sorico, fungevano da punto di sosta per chi valicava le montagne verso la Rezia o la Valtellina.

Durante il Medioevo, quando le strade erano spesso impraticabili, il lago divenne la via dei pellegrini. Uomini e donne provenienti dal Nord Europa scendevano lungo le sue sponde per raggiungere Roma o la Terra Santa, seguendo la Via Regina, il grande percorso che univa il centro dell’Impero con i valichi alpini. Le pievi di Gravedona, Dongo e Sorico, con i loro battisteri e ospizi, accoglievano chi cercava ristoro e protezione. L’acqua era specchio e guida, promessa di un viaggio che andava oltre la fatica del cammino.

Nei secoli successivi, il lago iniziò ad attrarre anche artisti, studiosi e letterati. Le sue rive divennero fonte d’ispirazione per pittori e poeti, affascinati dalla luce e dal silenzio sospeso tra montagna e acqua. I pittori lombardi del Rinascimento ne catturarono le vedute nei fondali dei loro dipinti sacri, come un simbolo di armonia divina. Più tardi, tra Settecento e Ottocento, con l’avvento del Romanticismo, il Lago di Como entrò nell’immaginario europeo come luogo dell’anima: un paesaggio capace di riflettere emozioni e pensieri.

Furono i viaggiatori stranieri a consacrarlo come uno dei luoghi più suggestivi d’Italia. I diari del Grand Tour — quel lungo viaggio che i giovani aristocratici europei intraprendevano per completare la propria formazione — raccontano il Lario come una tappa imprescindibile. Goethe, Stendhal e Shelley ne parlarono come di un paradiso naturale e spirituale. “Nulla è più tranquillo e più profondo di questo lago”, scrisse Stendhal nel 1817. “Si direbbe che il tempo si fermi qui.”

Anche gli artisti italiani, come Manzoni e Fogazzaro, trovarono nel lago un riflesso della propria poetica. I paesaggi descritti nei Promessi sposi o nelle pagine di Piccolo mondo antico non sono solo sfondi narrativi, ma personaggi vivi, capaci di esprimere sentimenti umani attraverso la natura. La quiete e la tempesta del lago diventano metafore di fede, di libertà, di attesa.

Ma il fascino del Lario non è solo letterario. È un fascino fisico, tangibile, che nasce dal continuo dialogo tra elementi: la pietra delle case, il verde dei boschi, l’azzurro dell’acqua. Per secoli, questo equilibrio ha attirato viaggiatori in cerca di ispirazione, studiosi di botanica e architetti. Le ville liberty di Domaso e gli antichi monasteri sopra Gravedona testimoniano questa lunga tradizione di contemplazione e bellezza.

Anche nel Novecento, quando il turismo iniziò a trasformare il paesaggio, il lago mantenne la sua aura. Fotografi, registi e scrittori continuarono a cercarvi quell’atmosfera sospesa che non esiste altrove. Il Lario è cambiato, certo, ma il suo cuore resta immutato: un luogo in cui la lentezza non è un difetto, ma una forma di fedeltà.

Eppure, accanto ai visitatori illustri, ci sono sempre stati i viaggiatori anonimi: i barcaioli che collegavano le due sponde, i mercanti che salivano verso Chiavenna, i pastori che scendevano dalle alpi con il bestiame, i migranti che cercavano fortuna altrove ma tornavano ogni estate a guardare il lago. Sono loro, forse più dei poeti e dei pittori, ad aver custodito l’anima vera di questo luogo.

Oggi, camminando lungo la ciclabile che collega Sorico a Gravedona, si possono ancora riconoscere le tracce di quei secoli di passaggi. Ogni muretto, ogni sagrato, ogni porto nascosto dietro una curva racconta un frammento di storia. E chi osserva il riflesso delle montagne sull’acqua, nelle ore più quiete, può percepire la stessa sensazione che provavano i viaggiatori del passato: quella di trovarsi davanti a qualcosa che non appartiene solo allo spazio, ma anche al tempo.

Il Lago di Como non è mai stato immobile. È un luogo che muta e si rinnova, ma che conserva intatta la sua vocazione all’incontro. Viaggiatori, artisti e pellegrini continuano a passare lungo le sue rive, spinti da ragioni diverse ma dallo stesso desiderio: trovare, tra l’acqua e la luce, un frammento di verità.

E così, anche oggi, chi arriva fin quassù, nell’Alto Lario, sente che il lago non è un semplice panorama, ma una voce. Una voce che racconta i secoli con lo stesso tono pacato e profondo di sempre, e che invita chi la ascolta a restare ancora un po’, per lasciarsi attraversare dal suo silenzio.

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